3 settembre 1982. Era un caldo venerdì
sera e gli italiani si preparavano a trascorrere uno degli ultimi
weekend estivi prima del rientro al lavoro: le famiglie si preparavano
per andare ad assaporare le ultime giornate di sole al mare e le
coppiette si apprestavano ad uscire e a trascorrere un fine settimana
all'insegna del divertimento. Anche Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro quella
sera avevano avvertito la necessità di uscire a respirare la fresca
aria di mare e avevano deciso di andare a mangiare in un ristorante di Mondello.
La A112 su cui salirono era seguita da un'Alfetta guidata dall'agente di scorta Domenico Russo.
Alle ore 21,15, mentre passavano da via Isidoro Carini a Palermo, una
motocicletta, guidata da un killer che aveva alle sue spalle il mafioso
Pino Greco, affiancò l'Alfetta di Russo e Greco lo uccise con un fucile
AK-47. Contemporaneamente una BMW 518, guidata da Antonino Madonia e
Calogero Ganci, raggiunse la A112 e i killer aprirono violentemente il
fuoco contro il parabrezza con un AK-47 (Dalla Chiesa e la moglie
rimasero uccisi da trenta pallottole). L'auto del prefetto sbandò,
andando a sbattere contro il bagagliaio di una Fiat Ritmo ivi
parcheggiata. Pino Greco scese dalla motocicletta e, girando attorno
alla A112 crivellata dagli spari, controllò l'esito mortale
dell'agguato. Oltre a questi sicari, vi erano sul posto altri criminali
"di riserva" che seguivano con un'altra auto pronti a intervenire nel
caso di una reazione efficace del Russo, che però non ebbe modo di
verificarsi.
Subito dopo le due auto e la motocicletta servite per il delitto vennero portate in un luogo isolato e lì date alle fiamme.
Carlo Alberto Dalla Chiesa era un
uomo, ma ancora prima di essere un uomo, egli era un generale e, come
succede per tutti quegli uomini che rivestono onestamente un'alta carica
al servizio dello Stato, doveva mettere al primo posto il suo lavoro,
il suo dovere. Seguendo questa semplice filosofia che viene, o almeno
veniva, inculcata nella mente di ogni soldato che operava in favore del
suo Paese, Dalla Chiesa, come tanti altri, trovò la morte. Qualcuno,
quella notte, si mise al di sopra di Nostro Signore e si arrogò il
diritto di spezzare le vite di tre uomini, rei solo di aver vissuto a
testa alta, seguendo il proprio dovere morale e semplicemente facendo il
proprio lavoro.
"Il generale di ferro" lo chiamavano. Ottimo
combattente, Dalla Chiesa era un po' diverso dai soliti nomi che capita
di sentire quando si parla di lotta a Cosa Nostra. Egli non era
siciliano, ma aveva avuto a che fare con la realtà dell'isola quando era
ancora molto giovane, indagando, a Corleone, su Lucianeddu e la sua
banda di "viddani", capeggiati Salvatore Riina. Dopo anni di esperienza
in questo campo, il generale fu mandato ad eliminare un altro cancro del
nostro Paese: il terrorismo delle Brigate Rosse. Ebbe un grandissimo successo e il suo contributo all'abbattimento di questo genere di criminalità organizzata fu essenziale.
Poi, però, nell'82 lo Stato gli affidò un altro compito. Qualcosa di molto più delicato e spaventoso: la lotta a Cosa Nostra.
Chi, in quegli anni, lo mandò nella terra maledetta, la Sicilia, era già consapevole della fine che avrebbe fatto.
tratto da www.19luglio1992.com
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